Esperienze in un campo profughi in Germania, una testimonianza da Andrea di San Marcello
La donna ha prestato servizio come volontaria in un centro di prima accoglienza di Monaco di Baviera: ecco il suo racconto
Dornach, periferia di Monaco di Baviera, Centro di Prima Accoglienza Profughi. L’edificio, in passato sede amministrativa di una grande azienda, ora ospita fino a 1.400 persone in fuga da guerre e persecuzioni, vittime di quel terrorismo che incute paura anche all’Europa. Nel Centro gestito dai Johanniter, esse trovano un primo rifugio su territorio tedesco dopo tanti giorni di marcia sulla “Balkanroute”.
Finalmente ci si riscalda, si riposa. Una prima doccia, “lusso” desiderato da troppi giorni, il primo pasto caldo, un primo sospiro di sollievo, da qualche tavolo, da qualche piccola comitiva provengono le prime risate liberatorie: siamo vivi, siamo qui!
Le parole che più frequentemente si sentono sono “shukran” – “thank you very much” – “danke”. Si parla un misto di arabo, inglese e tanta fantasia, ci capiamo (o anche no) attraverso gesti e disegni. La maggioranza degli ospiti sono giovani famiglie provenienti dalla Siria, ragazzi afghani, alcuni somali, tra loro sorprendentemente numerose le donne che viaggiano da sole con i loro bambini.
La gestione del “camp”, egregiamente organizzato dalla Onlus Johanniter, richiede comunque un’intensa collaborazione da parte di volontari, che, giorno dopo giorno, si vedono confrontati con i più svariati lavori in cucina, nella distribuzione di cibo, indumenti e articoli di igiene personale e nella selezione degli oggetti donati dai cittadini di Monaco. E’ un lavoro strano, molto appagante per chi, come me, è abituato a vivere un’esistenza tranquilla dalle mille micro-preoccupazioni superflue: entri nella vita ridotta agli elementi Sopravvivere Morire Fame Cibo Ferite Cura e, grazie a chi ha donato i mezzi, sei in grado di fare la differenza.
Alcune immagini, alcuni incontri mi rimarranno indimenticabili: durante la distribuzione del cibo, un bambino siriano di sei, sette anni dal viso di pietra, un piccolo uomo maturato nella sofferenza, cerca disperatamente di sistemare su un fragile piatto di plastica quattro bicchieri di bevande caldissime e qualche ciotola di zuppa fumante. Riesco a convincerlo che, facendo così, rischia di ustionarsi e l’aiuto con il trasporto. Il piccolo mi fa da guida attraverso lunghissimi corridoi e infine capisco perché lui deve assumersi un ruolo troppo pesante per la sua età: tutta la sua famiglia è ricoverata nella stazione medica del Camp. Lo stesso giorno rivedo il bambino nella stanza per la distribuzione degli indumenti, e insieme ci mettiamo alla ricerca di un paio di jeans della sua misura. Sicura di aver imparato almeno un termine arabo, lo uso per commentare sul paio che sta provando. Che sia per la mia pronuncia atroce o per l’uso insensato della parola , il viso del ragazzino comincia a illuminarsi finché egli non scoppia in una bella risata che ci porta a fare un gioco di soli gesti al quale si uniscono gli altri bambini che ci stanno intorno.
Una giovane donna siriana, fragile come un uccellino, mi chiede dove può trovare un medico per il suo bambino di due anni che tiene in braccio. L’accompagno attraverso i corridoi del Camp ma la folla dei nuovi arrivati ci impedisce di parlare. Capisco soltanto che lei viene da Homs, e guardandola nei grandi occhi nerissimi, ci leggo una profonda tristezza. Arrivate alla stazione medica, lei mi ringrazia, ci salutiamo. Vorrei sapere tante cose di lei: è sola? Come sta il suo bambino? Che cosa è successo a suo marito? Come è riuscita ad affrontare le fatiche terribili del viaggio? E, dopo tanti sacrifici, avrà la forza di costruire una nuova esistenza per sè e suo figlio in terra straniera? Non ci siamo più riviste.
Ci sono immagini di allegria, quando siriani e tedeschi, abbattendo le enormi barriere linguistiche, riescono a scherzare e a ridere insieme, per cause piccole e apparentemente banali ma enormi nel loro effetto di creare ponti.
C’è il ricordo di profondo dispiacere per una donna siriana dai piedi fasciati, rovinati dalla lunga marcia, che viene nella stanza degli indumenti per chiedere il nostro aiuto. Malgrado una lunga ricerca nel deposito generale non riusciamo a trovare gli stivali adatti, e lei è costretta a ripartire indossando solo delle ciabatte di spugna (di notte le temperature scendono già a 0° C!) eppure ci ringrazia con grande gentilezza.
In Italia, come in Germania, ogni giorno migliaia di volontari di Caritas, Croce Rossa e altre organizzazioni Onlus possono raccontare storie simili a queste, e anche se a volte l’impegno diventa pesante e non tutti gli incontri sono positivi, se una parte dell’opinione pubblica, strumentalizzando azioni terroristiche e confondendo vittime e colpevoli, si esprime contraria all’accoglienza – andiamo avanti, la direzione è giusta!
di Andrea Mertzlufft Filipponi
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